da Hot Kid, di Elmore Leonard
traduzione di Luca Conti; Einaudi, 2006
Il motivo per cui Tony Antonelli fu in grado di scrivere di prima mano su quella che pensò subito di chiamare La Sanguinosa Guerra di Bald Mountain è che se n’era tornato a Krebs di propria iniziativa, per seguire passo passo la cronaca di uno sciopero di minatori.
I proprietari delle miniere avevano annunciato un taglio salariale del venticinque per cento, e i minatori della sezione 2327 del sindacato se n’erano usciti dalla Osage n°5. Chiedevano che la compagnia continuasse a pagare loro un compenso giornaliero di sei dollari e dieci centesimi netti. Tony era cresciuto con gran parte dei minatori di origine italiana, e voleva ascoltare la loro versione dei fatti. Quelli gli dissero che stavano lottando per un salario di sussistenza minima, niente di meno. Già era abbastanza dover passare dieci ore al giorno in miniera assieme a quei muli fetenti. Gli animali, a loro dire, emettevano una tale quantità di gas putridi che con un semplice colpo di piccone su una roccia c’era il rischio di far saltare in aria tutto quanto. Tony non era poi così sicuro che questa fosse la verità, ma lo scrisse comunque. L’atteggiamento dei minatori era ottimo materiale giornalistico.
La compagnia mandò sul posto dei crumiri e anche un certo Nelson Lott, che un tempo era stato Agente Speciale del Dipartimento della Giustizia, dalle parti della Georgia, e dava la caccia ai distillatori clandestini che sfidavano il Proibizionismo spacciando alcolici di contrabbando. Il capo della polizia di Krebs, Fausto Bassi, disse a Tony che Lott era uno che preferiva farli fuori, i contrabbandieri, piuttosto che arrestarli, e che era noto per avere il grilletto facile.
Nestor Lott girava con due automatiche calibro quarantacinque infilate in due fondine legate alle gambe con corregge di cuoio. Nel suo taccuino, Tony annotò: «Si tratta di un uomo di bassa statura, neanche un metro e sessanta, con un’intensità negli occhi freddi e grigi che richiama l’attenzione di chiunque. Quando sorride – e capita di rado – non è chiaro se il suo è un sorriso di piacere o benevolenza, perché quegli occhi d’acciaio rimangono impassibili.»
Nestor Lott si liberò subito dei crumiri della compagnia, spacciandoli per ubriaconi e poveracci che non avevano alcun interesse personale a risolvere quella situazione, e reclutò al loro posto svariati esponenti del Ku Klux Klan, ai quali disse: «’sti dagos, lo sapete, sono tutti socialisti, nemici dello stile di vita americano. Se non ce li togliamo dai piedi ora, cercheranno di soffiarvi il lavoro e le fattorie, e poi vi porteranno via anche le donne, proprio come sanno fare gli italiani.»
La mossa seguente di Lott e dei suoi Klansmen fu quella di infilarsi i lenzuoli bianchi e i cappucci a punta e raggiungere in macchina un crinale che sovrastava la Osage n°5, il cui ingresso era presidiato dai minatori in sciopero appostati accanto alla palizzata. Nestor dispose lungo il crinale i suoi tiratori armati di fucile, tutti quei lenzuoli bianchi che sbattevano al vento a non più di cento metri dagli scioperanti che strizzavano gli occhi per cercare di capire che diamine stava succedendo. Poi spedì giù a valle uno del Klan con un messaggio, anzi un ultimatum, attaccato al radiatore della macchina e vergato a grandi lettere:
avete cinque minuti per levare le tende, poi apriremo il fuoco
Di andarsene, ai minatori non passò neanche per l’anticamera del cervello. In quei cinque minuti si misero a inveire contro i lenzuoli appollaiati sul crinale, berciando insulti sanguinosi, e scapparono a gambe levate per salvarsi la pelle solo quando i Klansmen spararono una prima raffica e continuarono a sparare tra sghignazzi e imprecazioni. Risultato: tre morti e sette feriti, prima che i minatori riuscissero a varcare la palizzata e ripararsi dietro le strutture della compagnia.
Ai proprietari della miniera venne un colpo, soprattutto perché il sindacato nazionale dei minatori li avrebbe sputtanati su tutti i giornali del Paese. Così pagarono le spese d’ospedale per i sette feriti, allungarono alle famiglie dei morti un assegno da cinquecento dollari ciascuno, dissero al losco e piccolo pistolero di tornarsene in Georgia e aprirono un tavolo di trattative col sindacato.
Ma Nestor Lott decise di restare in zona. Ormai ci aveva preso gusto e non voleva fermarsi, sicuro del sostegno del Klan. Quel che l’aveva incuriosito era l’ininterrotta circolazione di alcolici illegali in tutta la contea: vino, birra e liquori vari, alla faccia della vicinanza del penitenziario di Stato dell’Oklahoma, McAlester, a pochi chilometri da Krebs. Nestor disse a Tony Antonelli, che prendeva appunti nel locale in cui Lott era andato a pranzo: «Lo sa che le donne vendono la birra Choc direttamente dal baule della macchina? Che la tengono in vasche piene di ghiaccio? Donne italiane, intendo, che fanno soldi con la gente che si sbronza.»
Tony si sentì avvampare, quell’imbecille neanche si era reso conto di parlare con un italiano, o forse non gliene fregava un accidente. Richiuse il taccuino e disse a Nestor che sì, anche lui sapeva di donne che distillavano Choc. «Usano il malto e l’orzo, certo, e ci buttano dentro anche del tabacco e qualche bacca, ma la gradazione alcolica è davvero bassa. I minatori la bevono come ricostituente, visto che l’acqua che gira per le miniere fa schifo, anzi in certi casi è anche tossica.»
Nestor non fece una piega. «So di certi posti dove si gioca d’azzardo e che sono tutti una truffa, col cazzo che c’è modo di vincere qualcosa. Dove le puttane ti rifilano tutte le loro malattie, e ti fanno bere della roba che si diventa ciechi. Roba che portano su da posti tipo il Messico.»
«Mai sentito di italiani a Krebs che trafficano in superalcolici,» disse Tony.
«Ma il capo della polizia è italiano,» disse Nestor. «Uno che si chiama Bassi e parla con un accento che figuriamoci se è americano, garantisco io. Che fa, quel tale, per impedire queste violazioni della legge?» Poi si mise ad aspettare una risposta, piantando su Tony uno sguardo torvo e sospettoso. In seguito Tony avrebbe riaperto il taccuino per cercare di descrivere quello sguardo accusatorio e l’odio che si tirava addosso quel saputello presuntuoso, che cercava di far rispettare una legge che non importava proprio a nessuno.
Infine fu Nestor a parlare.
«La vuole scrivere, una bella storia?»
Tony attese.
«Ha presente quel motel dalle parti di Bald Mountain? Quello grosso? Sull’altro versante di McAlester?»
«Il posto di Jack Belmont,» disse Tony.
«Proprio quello,» disse Nestor. «Voglio farci un’irruzione con i miei Raddrizzatorti Cristiani, e darci dentro. Raderlo al suolo.»
«E pensa che la polizia glielo lascerà fare?» disse Tony.
«Figliolo,» disse Nestor, «Mica mi serve il permesso, a me.»