LAST OF THE INDEPENDENTS

LUCA CONTI'S ONE-MAN BAND

Archivi Mensili: Maggio 2010

RAYMOND CHANDLER, CREATORE DI MITI

Non sappiamo molto dei rapporti tra Raymond Chandler e la musica, il jazz in particolare. In una lettera del 1958, lo scrittore ormai settantenne racconta come, dopo la morte dell’adorata moglie Cissy, le sue notti insonni fossero per lo più passate ad ascoltare dischi, senza però specificare cosa gli piacesse o no. Il racconto Il re in giallo, del 1938, è incentrato sulla singolare figura di un trombettista/trombonista dall’improbabile nome di King Leopardi sulla cui morte indaga Steve Quayle, uno dei tanti detective privati che di lì a poco Chandler farà confluire nell’immortale figura di Philip Marlowe, ma non presenta espliciti riferimenti musicali se non un breve accenno al virtuosismo di Leopardi, capace di raggiungere (e sostenere) sulla tromba un bel Mi sovracuto.

Chissà come stavano davvero le cose. Molti degli illustri colleghi di Chandler, per esempio Horace McCoy – autore di Non si uccidono così anche i cavalli e Il sudario non ha tasche – Kenneth Millar (ovvero Ross Macdonald) e David Goodis avevano per il jazz una passione quasi morbosa. La collezione di dischi di McCoy era, a quanto sappiamo, leggendaria: tanto che alla morte dello scrittore, nel 1955, la vedova si trovò costretta a disfarsene per pagare le spese del funerale nonché i debiti lasciati dal marito, mentre i pochi momenti di serenità in una vita tormentata come quella di Goodis erano quelli in cui lo scrittore poteva recarsi ad ascoltare l’orchestra di Count Basie in occasione dei suoi saltuari passaggi da Filadelfia. Per Chandler, invece, la musica e in particolare il jazz sono sempre stati poco più di un elemento di colore, qualcosa che giustificasse la proliferazione di cabaret, club privati e sale da ballo nei quali Marlowe – o i suoi alter ego – erano spesso costretti a recarsi per rintracciare i più improbabili elementi del sottobosco notturno di Los Angeles.

D’altronde, fatte salve le sue eccezionali doti letterarie, Chandler è stato soprattutto un grande creatore di miti. Chiaro, per quanto riguarda la cosiddetta hard-boiled school è stato Carroll John Daly (e poi Dashiell Hammett col suo Sam Spade e il Falcone maltese) il primo a mettere in luce le potenzialità del genere e a forgiare un primo abbozzo di mitologia, ma la sedimentazione di queste figure retoriche nell’immaginario collettivo si deve senza dubbio a Chandler, così come l’averle fatte diventare un modello su cui migliaia di scrittori di maggiore o minore talento si sarebbero di lì a poco cimentati. Philip Marlowe è, per usare le parole dello stesso Chandler, «la personificazione di un modo di essere, l’esagerazione di una possibilità. Il detective è una figura completa e immutabile, qualunque cosa accada; vive all’esterno e al di sopra del racconto, e sarà sempre così. Per questo non conquista mai la bella di turno, non è destinato a sposarsi e non ha una vita privata vera e propria, fatte salve le ovvie necessità fisiologiche: mangiare, dormire, tenere i propri abiti da qualche parte. La sua forza morale e intellettuale risiede nel fatto che l’unico suo premio è riscuotere la parcella, e solo questo lo rende capace (ma non sempre) di proteggere gli innocenti, aiutare chi ne ha bisogno e sconfiggere i malvagi. Che lui riesca a fare tutto questo, sbarcando a malapena il lunario in un mondo corrotto, è il tratto che lo distingue da tutti gli altri.»

I locali fumosi di Chandler, quindi, nei quali si balla e si ascolta musica, fungono quasi sempre da copertura per attività assai meno nobili: è lì che si gioca d’azzardo e si beve a volontà, si traffica in droga e si pratica la prostituzione, è lì che Marlowe o chi per lui capita con estrema frequenza alla ricerca di figlie scomparse o collane di perle trafugate. E, per quanto veritiere possano suonare le ambientazioni dell’autore, noi lettori sappiamo benissimo che si tratta di versioni idealizzate, concepite non tanto da un acuto osservatore della vita notturna californiana ma da un non più giovanissimo intellettuale la cui formazione era avvenuta non tanto nei joints di Central Avenue ma nelle prestigiose aule del Dulwich College di Londra.

Già, perché Chandler, come non a tutti è noto, è un prodotto del sistema educativo britannico, Paese di cui – grazie alla madre – possedeva fin dal 1907 la cittadinanza e nel quale ha vissuto fino ai 24 anni di età. Malgrado questo – o proprio per questo, come fa notare uno dei migliori autori del noir contemporaneo, George Pelecanos – «Chandler apprezzava e percepiva lo slang delle strade come nessun altro autore dei suoi tempi. Se è vero, come sostengono certuni, che nella vita reale nessuno ha mai parlato come i personaggi dei romanzi di Chandler, suona ancor più incredibile la sua capacità di saltar fuori con dialoghi tosti e incalzanti, quasi stenografici, che hanno finito per rappresentare nella mente dei lettori la quintessenza dell’hard-boiled».

Come si può vedere, è tutta questione di mitologia. La stessa dalla quale non hanno saputo evadere i tanti epigoni di Chandler e quelli che ne hanno spinto ancora più avanti le intuizioni, mescolandole con le istanze sociali degli anni Sessanta (il già citato Kenneth Millar/Ross Macdonald, un altro intellettuale di vaglia prestato al romanzo poliziesco), Settanta e Ottanta (gli appena scomparsi Robert B. Parker e James Crumley). Parker e Crumley, in particolare, hanno affondato le mani, ciascuno a suo modo, nell’eredità chandleriana: il primo completando l’incompiuto Poodle Springs Story e utilizzando Marlowe come personaggio di un ulteriore romanzo, il secondo riscrivendo di sana pianta Il lungo addio per trasformarlo nel capolavoro assoluto della narrativa hard-boiled americana degli ultimi cinquant’anni, ovvero quell’Ultimo vero bacio (1978) che il sottoscritto ha avuto il piacere e l’onore di tradurre per Einaudi.

E, come per i Tre moschettieri, per l’Agente 007, per il Conte di Montecristo o chi volete voi, la forza del mito è irresistibile. Non importa che la Los Angeles di cui scriveva Chandler fosse, all’epoca dei suoi romanzi, già svanita da un pezzo o addirittura, come sosteneva la grande scrittrice e sceneggiatrice Leigh Brackett, sua contemporanea, «che non fosse mai esistita se non nella sua immaginazione»; non importa, come scrive Pelecanos, «che i cappelli di feltro, le coupé tirate a lucido, i night club avvolti dal fumo di sigaretta, le donne fatali dalla voce roca e i gangster in completo gessato fossero il più delle volte il prodotto di una fervida fantasia letteraria; al pari del West di John Ford, la Los Angeles di Chandler è come un vero artista avrebbe voluto che andassero le cose. E la forza di questa visione risiede nel fatto che – proprio com’è successo per il Far West ricostruito da Ford – la Los Angeles di Chandler è a tutti gli effetti diventata, per noi, un luogo reale».

ANITA

Il 25 maggio, al Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino, nell’ambito di Novara Jazz 2010, la prima proiezione italiana dello splendido documentario su Anita O’Day, la più noir delle cantanti di jazz. Di seguito, la presentazione che mi è stata chiesta per il catalogo del festival.

 

La voce bianca del jazz per eccellenza:
un film per ricordare Anita O’Day

Impossibile condensare in poche righe una carriera durata ben settant’anni come quella di Anita O’Day, una delle più grandi cantanti nella storia del jazz e, soprattutto, personaggio – come dicono negli Stati Uniti – larger than life, votato alla perenne ricerca dell’autodistruzione ma, allo stesso tempo, traboccante di voglia di vivere, in una strabiliante serie di alti (ma davvero alti) e bassi (ma davvero bassi) che non sono mai comunque riusciti a intaccare quello che, senza alcun dubbio, può definirsi come il tocco del genio.
Ecco, la vita avventurosa di Anita Belle Colton – che già dalla scelta dello pseudonimo, quell’O’Day che in slang sta per quattrini, mette subito in chiaro che sì, l’arte è una gran bella cosa, ma i soldi non sono certo da buttare via, anzi – sarebbe stata, ai tempi d’oro di Hollywood, perfetta per uno di quei filmoni tutti ascesa e caduta, un melodramma magari firmato da Douglas Sirk. Solo che Anita, troppo jazzista nell’animo e nient’affatto disposta a concedere alcunché alla platea, non è mai riuscita a fare il gran salto, a diventare celebre presso il grande pubblico, a finire sulle copertine delle riviste popolari. Le vicende personali della cantante, così come da lei stessa riportate nel 1981  – con la collaborazione di George Eells – nella trucida autobiografia High Times, Hard Times (ascesa e caduta, come si è detto) sono di una tale drammaticità da far impallidire la fervida immaginazione di autori non proprio per i deboli di cuore come, per dire, un James Ellroy.
Follemente amata dagli appassionati, la O’Day è sempre stata trascurata dal cinema, malgrado una presenza scenica e un’incredibile faccia tosta che potevano far intuire doti non secondarie di attrice non solo drammatica. A nostra scienza, Anita è apparsa sullo schermo – escludendo documentari e spezzoni di concerti – solo in due pellicole di fiction: il trascurabile thriller Zigzag (1970; in italiano Il falso testimone), diretto da Richard A. Colla e interpretato da George Kennedy ed Eli Wallach, che vanta però una notevole colonna sonora firmata da Oliver Nelson, e in cui la Nostra (nel ruolo di cantante, guarda un po’) ha l’opportunità di interpretare un notevole On Green Dolphin Street, e l’eccellente poliziesco d’azione The Outfit (1973; in italiano Organizzazione crimini), diretto da John Flynn, interpretato da Robert Duvall e tratto da un romanzo di Richard Stark, ovvero Donald E. Westlake. Qui, addirittura, Anita figura nella parte di se stessa in una rapida scena da locale notturno e affronta I Concentrate on You accompagnata da Bud Shank e da qualche altro superstite del West Coast Jazz. Ma non c’è dubbio che Hollywood avrebbe potuto e dovuto impiegarla in ben altri modi.
Prodotto e realizzato nel 2006 dall’ultimo manager di Anita O’Day, Robbie Cavolina, assieme a Ian McCrudden, The Life of a Jazz Singer offre in assoluto il ritratto più fedele e meno di maniera della grande cantante di Chicago. Niente ci è risparmiato della clamorosa e travagliata vita della signora Colton, così come la sua pluridecennale carriera è trattata con dovizia di particolari e interviste sempre rivelatrici. E i momenti di maggior interesse sono quelli in cui è la stessa Anita a prendere la parola, spietata e senza peli sulla lingua – soprattutto con se stessa – com’è stata per tutta la sua lunghissima vita.

CHANDLER A RUSSI

 

Dal 13 al 23 maggio nel comune di Russi si celebra Raymond Chandler (il padre del detective Philip Marlowe), con una serie di iniziative in collaborazione con il festival jazz regionale Crossroads che culmineranno proprio nel concerto di chiusura della rassegna. Un’eclettica serie di eventi esclusivi che celebra la contaminazione delle forme artistiche e testimonia la collaborazione, ormai di lunga data, tra il Comune di Russi e Crossroads.
Giovedì 13 maggio al Centro Giovani Ex Macello di via Vecchia Godo a Russi inaugura la mostra documentaria “Il papà di Marlowe”, a cura di “GialloLuna NeroNotte”.
Sabato 22 alle 21, sempre all’ex Macello, si terrà l’incontro pubblico “Music & Noir”, tra dialoghi, ascolti e proiezioni con gli scrittori Eraldo Baldini e Carlo Lucarelli, il critico cinematografico Andrea Bruni, il critico jazz e traduttore Luca Conti e il giornalista e scrittore Paolo Pingani di “GialloLuna NeroNotte”.
Domenica 23 maggio, infine, alle 21 al Teatro Comunale di via Cavour, avrà luogo l’esibizione che chiude Crossroads 2010, con la nota cantante Rossana Casale accompagnata dalla Lydian Sound Orchestra diretta da Riccardo Brazzale (e con la voce recitante di Franco Costantini) in “Bay City Blues, Music for Raymond Chandler”.
Rossana Casale – voce, voce recitante;
Franco Costantini – voce recitante, ideazione progetto;
Riccardo Brazzale – conduzione, arrangiamenti;
Pietro Tonolo, Robert Bonisolo, Rossano Emili, sassofoni
J Kyle Gregory, tromba
Roberto Rossi, trombone
Dario Duso, tuba
Paolo Birro, pianoforte
Marc Abrams, contrabbasso
Mauro Beggio, batteria
“Bay City Blues” è un omaggio a Raymond Chandler contemporaneamente in forma di concerto e reading. Da sempre autore di culto per gli amanti del giallo letterario, Chandler è stato infine rivalutato anche come stilista delle parole, tanto che oggi lo si può considerare un intellettuale prestato alla letteratura di genere. Suoi sono alcuni dei più celebri noir e polizieschi d’ogni tempo, spesso passati alla storia anche per le loro trasposizioni cinematografiche: Il grande sonno, Addio mia amata, La signora nel lago, Il lungo addio, Bay City Blues. Da questi e altri testi chandleriani provengono i brani che saranno recitati da un insolito e prezioso duo di voci, formato da Rossana Casale e da Franco Costantini, poeta nonché ideatore del progetto.
Info e prevendite: Ufficio Cultura Comune di Russi 0544/587641

IN FONDO ALLA PALUDE

È in libreria la mia nuova traduzione di The Bottoms, forse il romanzo più noto di Joe Lansdale assieme a A Fine Dark Line (ovvero La sottile linea scura, che già avevo tradotto nel 2004. Sembra ieri). Perché una nuova traduzione, dite? Innanzitutto perché il libro ne aveva davvero bisogno, senza nulla togliere al collega che mi ha preceduto, e poi perché rientra nelle celebrazioni dei venti anni passati da Sergio Fanucci alla guida della casa editrice fondata dal padre. Per l’occasione la Fanucci ha ripubblicato venti tra i titoli più famosi usciti in questi vent’anni, ma soltanto questo in una nuova (e appositamente commissionata) traduzione. Wow!

Il mio ringraziamento va, come di consueto, alla vulcanica Luisa Piussi, che funge sempre da ottimo antidoto alla mia atavica pigrizia.

FRASI CELEBRI (6)

«Our present cultural landscape suggests we live in a period of profound corruption, symbolized in the ideology of “the Market Economy” in which the only value honored is that of money – its earning, spending, making. There are other values I chose instead and I willingly pay the price for my choice.»

Jon Jost, independent filmmaker

PRIMO MAGGIO

da Hot Kid, di Elmore Leonard

traduzione di Luca Conti; Einaudi, 2006

Il motivo per cui Tony Antonelli fu in grado di scrivere di prima mano su quella che pensò subito di chiamare La Sanguinosa Guerra di Bald Mountain è che se n’era tornato a Krebs di propria iniziativa, per seguire passo passo la cronaca di uno sciopero di minatori.

I proprietari delle miniere avevano annunciato un taglio salariale del venticinque per cento, e i minatori della sezione 2327 del sindacato se n’erano usciti dalla Osage n°5. Chiedevano che la compagnia continuasse a pagare loro un compenso giornaliero di sei dollari e dieci centesimi netti. Tony era cresciuto con gran parte dei minatori di origine italiana, e voleva ascoltare la loro versione dei fatti. Quelli gli dissero che stavano lottando per un salario di sussistenza minima, niente di meno. Già era abbastanza dover passare dieci ore al giorno in miniera assieme a quei muli fetenti. Gli animali, a loro dire, emettevano una tale quantità di gas putridi che con un semplice colpo di piccone su una roccia c’era il rischio di far saltare in aria tutto quanto. Tony non era poi così sicuro che questa fosse la verità, ma lo scrisse comunque. L’atteggiamento dei minatori era ottimo materiale giornalistico.

La compagnia mandò sul posto dei crumiri e anche un certo Nelson Lott, che un tempo era stato Agente Speciale del Dipartimento della Giustizia, dalle parti della Georgia, e dava la caccia ai distillatori clandestini che sfidavano il Proibizionismo spacciando alcolici di contrabbando. Il capo della polizia di Krebs, Fausto Bassi, disse a Tony che Lott era uno che preferiva farli fuori, i contrabbandieri, piuttosto che arrestarli, e che era noto per avere il grilletto facile.

Nestor Lott girava con due automatiche calibro quarantacinque infilate in due fondine legate alle gambe con corregge di cuoio. Nel suo taccuino, Tony annotò: «Si tratta di un uomo di bassa statura, neanche un metro e sessanta, con un’intensità negli occhi freddi e grigi che richiama l’attenzione di chiunque. Quando sorride – e capita di rado – non è chiaro se il suo è un sorriso di piacere o benevolenza, perché quegli occhi d’acciaio rimangono impassibili.»

Nestor Lott si liberò subito dei crumiri della compagnia, spacciandoli per ubriaconi e poveracci che non avevano alcun interesse personale a risolvere quella situazione, e reclutò al loro posto svariati esponenti del Ku Klux Klan, ai quali disse: «’sti dagos, lo sapete, sono tutti socialisti, nemici dello stile di vita americano. Se non ce li togliamo dai piedi ora, cercheranno di soffiarvi il lavoro e le fattorie, e poi vi porteranno via anche le donne, proprio come sanno fare gli italiani.»

La mossa seguente di Lott e dei suoi Klansmen fu quella di infilarsi i lenzuoli bianchi e i cappucci a punta e raggiungere in macchina un crinale che sovrastava la Osage n°5, il cui ingresso era presidiato dai minatori in sciopero appostati accanto alla palizzata. Nestor dispose lungo il crinale i suoi tiratori armati di fucile, tutti quei lenzuoli bianchi che sbattevano al vento a non più di cento metri dagli scioperanti che strizzavano gli occhi per cercare di capire che diamine stava succedendo. Poi spedì giù a valle uno del Klan con un messaggio, anzi un ultimatum, attaccato al radiatore della macchina e vergato a grandi lettere:

avete cinque minuti per levare le tende, poi apriremo il fuoco

Di andarsene, ai minatori non passò neanche per l’anticamera del cervello. In quei cinque minuti si misero a inveire contro i lenzuoli appollaiati sul crinale, berciando insulti sanguinosi, e scapparono a gambe levate per salvarsi la pelle solo quando i Klansmen spararono una prima raffica e continuarono a sparare tra sghignazzi e imprecazioni. Risultato: tre morti e sette feriti, prima che i minatori riuscissero a varcare la palizzata e ripararsi dietro le strutture della compagnia.

Ai proprietari della miniera venne un colpo, soprattutto perché il sindacato nazionale dei minatori li avrebbe sputtanati su tutti i giornali del Paese. Così pagarono le spese d’ospedale per i sette feriti, allungarono alle famiglie dei morti un assegno da cinquecento dollari ciascuno, dissero al losco e piccolo pistolero di tornarsene in Georgia e aprirono un tavolo di trattative col sindacato.

Ma Nestor Lott decise di restare in zona. Ormai ci aveva preso gusto e non voleva fermarsi, sicuro del sostegno del Klan. Quel che l’aveva incuriosito era l’ininterrotta circolazione di alcolici illegali in tutta la contea: vino, birra e liquori vari, alla faccia della vicinanza del penitenziario di Stato dell’Oklahoma, McAlester, a pochi chilometri da Krebs. Nestor disse a Tony Antonelli, che prendeva appunti nel locale in cui Lott era andato a pranzo: «Lo sa che le donne vendono la birra Choc direttamente dal baule della macchina? Che la tengono in vasche piene di ghiaccio? Donne italiane, intendo, che fanno soldi con la gente che si sbronza.»

Tony si sentì avvampare, quell’imbecille neanche si era reso conto di parlare con un italiano, o forse non gliene fregava un accidente. Richiuse il taccuino e disse a Nestor che sì, anche lui sapeva di donne che distillavano Choc. «Usano il malto e l’orzo, certo, e ci buttano dentro anche del tabacco e qualche bacca, ma la gradazione alcolica è davvero bassa. I minatori la bevono come ricostituente, visto che l’acqua che gira per le miniere fa schifo, anzi in certi casi è anche tossica.»

Nestor non fece una piega. «So di certi posti dove si gioca d’azzardo e che sono tutti una truffa, col cazzo che c’è modo di vincere qualcosa. Dove le puttane ti rifilano tutte le loro malattie, e ti fanno bere della roba che si diventa ciechi. Roba che portano su da posti tipo il Messico.»

«Mai sentito di italiani a Krebs che trafficano in superalcolici,» disse Tony.

«Ma il capo della polizia è italiano,» disse Nestor. «Uno che si chiama Bassi e parla con un accento che figuriamoci se è americano, garantisco io. Che fa, quel tale, per impedire queste violazioni della legge?» Poi si mise ad aspettare una risposta, piantando su Tony uno sguardo torvo e sospettoso. In seguito Tony avrebbe riaperto il taccuino per cercare di descrivere quello sguardo accusatorio e l’odio che si tirava addosso quel saputello presuntuoso, che cercava di far rispettare una legge che non importava proprio a nessuno.

Infine fu Nestor a parlare.

«La vuole scrivere, una bella storia?»

Tony attese.

«Ha presente quel motel dalle parti di Bald Mountain? Quello grosso? Sull’altro versante di McAlester?»

«Il posto di Jack Belmont,» disse Tony.

«Proprio quello,» disse Nestor. «Voglio farci un’irruzione con i miei Raddrizzatorti Cristiani, e darci dentro. Raderlo al suolo.»

«E pensa che la polizia glielo lascerà fare?» disse Tony.

«Figliolo,» disse Nestor, «Mica mi serve il permesso, a me.»